La sorte della casa famigliare, concessa in comodato dai genitori di uno dei coniugi o conviventi, in caso di crisi famigliare e disgregazione dell’unione tra gli stessi 

 

di Avv. Arianna Tornaghi

 

Nella realtà di tutti i giorni, può verificarsi la situazione in cui, alla genesi di un matrimonio o di una convivenza, un membro della famiglia di una delle due parti della coppia,  ad esempio uno dei genitori, conceda in comodato ovvero metta a disposizione, magari in modo del tutto privo di formalità, un immobile di sua proprietà, affinché la neonata coppia inizi la propria vita in comune o, per dirla in termini giuridici, in qualità di ‘casa famigliare’.

 

La famiglia si allarga e si arricchisce di prole, la via famigliare trascorre nel tempo, finché qualcosa si rompe: le motivazioni di tale frattura rientrano in quel ventaglio variegato di possibilità che solo la realtà ci offre e su cui, in questa sede, è inutile indagare; fatto sta che l’affectio tra i due coniugi o conviventi si affievolisce e viene meno.

 

Quid iuris in relazione all’immobile di proprietà del parente, concesso in comodato all’inizio della vita coniugale ovvero della convivenza?

 

La giurisprudenza si è occupata in molteplici occasioni della fattispecie appena esemplificata, che sottende, come ci si può immaginare, un prisma di questioni giuridiche di viva attualità e di indubbio interesse.

 

 

Il comodato c.d. precario ed il comodato c.d. senza limiti di durata 

 

Il primo quesito che occorre porsi inerisce la qualificazione giuridica cui rivestire il rapporto della neonata famiglia con l’immobile di proprietà del parente che l’ha messo a disposizione a titolo gratuito.

 

Naturalmente ogni caso concreto rappresenta una realtà a se stante e ciò ha, in una valutazione olistica delle considerazioni che si faranno nel presente articolo, una dignità maggiore di una semplice precisazione; tuttavia, volendo svolgere una ricerca giurisprudenziale sul punto, ciò che viene immediatamente alla luce è la problematica relativa alla differenza tra il c.d. comodato propriamente detto (di cui agli articoli 1803 c.c. e 1809 c.c.) ed il c.d. comodato precario ovvero senza limiti di durata (di cui all’articolo 1810 c.c.). 

 

Al riguardo, giova ribadire, partendo dalla lettera della norma, che il contratto di comodato, come cristallizzato nell’articolo 1803 c.c., è: “… il contratto col quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente gratuito”.

 

Orbene, la giurisprudenza esaminata pare ritenere che un contratto di comodato, stipulato magari verbalmente o senza formalità, a favore della propria prole, che si estrinsechi nella messa a disposizione del bene al comodatario, rectius perfezionatosi con la consegna della res allo stesso, debba leggersi, a valle di debita interpretazione delle intenzioni delle parti al sorgere del vincolo negoziale, come rientrante nella cornice giuridica dell’articolo 1809 c.c., in quanto sottoposto l’immobile in questione al vincolo di ‘destinazione famigliare’.

 

In altre parole, la messa a disposizione e la consegna di un immobile al figlio affinché lo abiti con la famiglia, consente, seppur indirettamente e c.d. per relationem, di imprimere un termine al contratto e ciò proprio per una ragione teleologica, vale a dire quella di soddisfare le esigenze famigliari, sortendo così l’applicazione della disciplina di cui all’articolo 1803 c.c. e 1809 c.c.

 

Infatti, sono proprio lo scopo e la finalità conferite da entrambe le parti al perfezionarsi dell’accordo a rendere, quantomeno determinabile, la durata del vincolo e, conseguentemente, impermeabili le esigenze del comodante ad eventuali provvedimenti di assegnazione di quella che è, a tutti gli effetti, l’abitazione coniugale.

 

Le eccezioni del resto non mancano, essendo esse pure cristallizzate nella lettera della norma e cioè, utilizzando il verbo dell’articolo 1809, secondo comma, c.c: “…se però durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente ed impreveduto bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata”.

 

Al riguardo, giova sin da subito rilevare che l’espressione “urgente ed impreveduto bisogno” non potrà ricondursi alla decisione arbitraria o anche solo unilaterale del comodante, ad esempio, di mettere a reddito l’immobile in parola, concedendolo in locazione, poiché, come ha chiarito la Corte di Cassazione, tale bisogno deve essere imprevisto, urgente e sopravvenuto, rispetto al momento di formazione del negozio (ex multis, la pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, numero 20448/2014, di seguito meglio esaminata, che precisa: …la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente..l’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile…ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto”). Per tornare all’esempio indicato all’inizio di questo paragrafo, qualora sia sopraggiunto un deterioramento della situazione economica del comodante, che giustifichi una vendita o una locazione dell’immobile e posto l’onere della prova in capo al comodante, ciò consente di porre fine al comodato anche se la destinazione impressa a suo tempo è stata quella di ‘casa famigliare’.

 

Invece, nel frequente caso sottoposto al nostro esame, in ossequio alla maggioranza della giurisprudenza esaminata, non pare configurarsi invece il c.d. comodato precario. Con tale espressione, si ricorda a se stessi, si intende definire quella figura giuridica, disciplinata dall’articolo 1810 c.c., che delinea un comodato senza limiti di durata e senza la possibilità di desumerne un termine, pertanto, a tempo indeterminato.

 

La differenza tra i due istituti appena citati, vale a dire tra comodato propriamente detto e comodato precario, non è di poco conto se consideriamo che in quest’ultima ipotesi il comodante può richiedere ad nutum la restituzione dell’immobile, mentre nel caso in cui il vincolo di destinazione sia tale da fare presumere, seppur per relationem, un limite di durata al contratto, allora, finché non si è esaurita la finalità per cui è stato concesso il comodato, l’immobile, salvo eccezioni, non potrà essere restituito al comodante. Con riferimento alla lettera della legge: “il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza del termine quando se ne è servito in conformità del contratto..” (articolo 1809 c.c.); “se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è testo a restituirla non appena il comodante la richiede” (articolo 1810 c.c).

 

 

Alla luce di ciò, il diritto del comodante, viene, per così dire, a rivestire una posizione subordinata rispetto alla eventuale assegnazione della casa al collocatario della prole; quest’ultima considerazione, del resto, potrebbe riverberare degli effetti concreti anche in combinato disposto con eventuali eccezioni di controparte (per rimanere nell’esempio sopra indicato, la nuora) in un contenzioso avente ad oggetto la richiesta di rilascio dell’immobile.

 

Ne consegue che, in linea con il disposto di cui al succitato articolo 1809 c.c., il rilascio dell’immobile non sarà possibile finché persistono le succitate descritte finalità famigliari, vincolo di destinazione dello stesso, eccezione fatta, come anzidetto, per la ricorrenza di uno stato di bisogno, urgente ed imprevedibile, in capo al comodante.

 

La giurisprudenza in materia

 

Fatte queste considerazioni, si ritiene opportuno e doveroso citare, seppur sommariamente, la giurisprudenza recente, da cui esse sono state tratte.

 

Tra le tante, valga evidenziare, proprio in tema di assegnazione di casa coniugale, la recente pronuncia della Corte di Cassazione numero 3302, del 12.02.2018, che precisa che: …il provvedimento di assegnazione della casa famigliare (anche se questa è detenuta a titolo diverso dalla proprietà), emesso in presenza di validi presupposti, ha effetto anche nei confronti dei proprietari che avevano concesso l’immobile in comodato al coniuge non assegnatario. Pertanto, anche nel caso in cui la casa coniugale sia posseduta a titolo diverso dalla proprietà da parte del coniuge non assegnatario, se sono osservate le condizioni e se nell'immobile, prima della separazione o del divorzio, era stabilita la residenza familiare, l'assegnazione è opponibile sia ai proprietari sia ai terzi”.

 

Ed ancora, eloquente in materia, si rivela altresì la sentenza della Corte di Cassazione, numero 3553, del 10.02.2017, interessante altresì poiché i Giudici di legittimità inquadrano la questione con le lenti della differenza tra disciplina di cui all’articolo 1809 c.c. e 1810 c.c.

Tale pronuncia sottendeva appunto il caso di una suocera che aveva richiesto la restituzione dell’immobile (concesso in comodato, a suo dire al solo figlio e a tempo indeterminato), alla nuora, la quale poi aveva continuato ad abitarci con il nipote anche dopo la fine del rapporto sentimentale intercorso con il compagno. La nuora, dal canto suo, sosteneva invece che l’immobile fosse stato concesso al nucleo famigliare, a titolo di comodato non precario (“sottoposto ad un termine implicito determinato dall’uso del bene stesso”).

 

La Suprema Corte ha, in linea con il decisum della Corte d’Appello, inquadrato la vicenda nella cornice del comodato non precario di cui al succitato articolo 1809 c.c., ritenendo sfornite di prova le deduzioni della suocera tese a dimostrare una diversa lettura della vicenda negoziale. Inoltre, i Giudici di legittimità, nella sentenza in parola, tratteggiano la distinzione tra le due figure giuridiche di comodato di cui abbiamo parlato, vale a dire quello c.d. propriamente detto e quello c.d. precario, precisando che: “è a questo tipo contrattuale [articolo 1809 c.c.] che, in assenza di pattuizioni circa il termine finale del godimento, va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario…trattasi infatti di comodato sorto per un uso determinato e dunque per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa famigliare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale”.

 

Ed ancora, in questo excursus merita annoverarsi la sentenza della Corte di Cassazione, numero 1666, del 29.01.2016, che, cassando con rinvio una pronuncia della Corte d’appello territorialmente competente, si sofferma ancora una volta sulla dicotomia tra comodato c.d. propriamente detto, cristallizzato nel combinato disposto tra gli articoli 1803 c.c. e 1809, secondo comma, c.c. ed il comodato c.d. precario ovvero senza determinazione di durata, di cui all’articolo 1810 c.c.

In particolare, la Suprema Corte, rimandando alla sentenza delle Sezioni Unite, di cui infra ed inquadrata la problematica in seno alla dicotomia succitata, ha precisato che: …solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito richiedere ad nutum il rilascio al comodatario. L’articolo 1809 c.c., concerne, invece, il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che concedente di stabilire la scadenza contrattuale…a questo tipo contrattuale va, quindi, ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario….si tratta infatti di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa famigliare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale. Ed è grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto di cui all’articolo 1809, comma 2, norma che riequilibra  la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale”.

 

In tema di comodato e casa famigliare, non ci si può esimere dal citare la nota pronunzia della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, numero 20448, del 29.09. 2014, importante poiché successiva ad un’altra celebre sentenza a Sezioni Unite sul punto, risalente al 2004 ed in ragione del fatto che, all’interno della stessa, i Giudici di legittimità chiariscono “come insorga il vincolo di destinazione a casa famigliare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del comodatario iniziale”.

 

Ora, sebbene siano questi i punti su cui si sono soffermate anche le pronunzie già esaminate, si ritiene opportuno svolgere una piccola indagine, dal momento che questi sono anche i cardini con cui vanno lette le pronunzie di legittimità e di merito cronologicamente successive.

 

In particolare, i Giudicanti, rifacendosi alla precedente pronunzia delle Sezioni Unite del 2004, precisano anzitutto che non ogniqualvolta un immobile venga concesso ad una coppia che inizia la sua vita, in qualità di comodataria, si debba necessariamente riconoscere una “durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata”; si rende necessaria, in altre parole, un’analisi, avente ad oggetto il caso concreto, in ordine alla eventuale sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene ovvero una scrupolosa indagine in ordine alla intenzione delle parti, “che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti”.

 

In altre parole, secondo le Sezioni Unite del 2014, non sarebbe giusto fare ricadere sempre e comunque nell’ambito dell’articolo 1809 c.c. e del comodato non precario l’ipotesi di abitazione concessa a comodato senza porre limiti temporali, essendo necessaria una vera e propria verifica processuale riferita alle intenzioni delle parti, le finalità del contratto ed altresì la causa del negozio: “se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a dritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia”.

 

Ciò premesso, è però pur vero, e parimenti rilevato dalla Corte di Cassazione, che il c.d. comodato di casa familiare (e tale qualificazione parrebbe, alla luce di quanto sopra, collocarsi a valle dell’indagine esperita e di cui al paragrafo che appena precede) viene ricondotto nell’alveo dell’articolo 1809 c.c., estraneo dunque alla disciplina del c.d. comodato precario (…nasce dalla convinzione della piena stabilità del rapporto, che tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno…questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario”).

 

 

La casa famigliare e il superiore interesse della prole: la regola e le eccezioni

 

Come si è visto, dunque, il diritto di proprietà del titolare, seppur costituzionalmente garantito, sconta di una posizione secondaria e, se così si può dire, recessiva, rispetto al l’eventuale provvedimento di assegnazione della casa famigliare e, in definitiva, al primario interesse del figlio e ciò ha diretta rilevanza anche in tema di richiesta in questo senso (e accoglimento della stessa).

 

Si ritiene di interesse indagare quelle che sono le ragioni sottese a quello che è, ormai, come abbiamo visto, un costante orientamento di legittimità e di merito.

 

La ratio sottesa al succitato principio inerisce l’interesse del figlio, che è cresciuto in quella casa, si è abituato all’ambiente e ha coltivato le sue amicizie nella zona: la casa coniugale o, comunque sia, famigliare viene quindi assegnata al genitore collocatario in quanto, appunto, habitat naturale della prole.

 

L’interesse del figlio, la necessità di non ‘traumatizzare’ o, forse meglio dire, anche soltanto di non rivoluzionare le sue abitudini e, dunque, la sua salute psicologica impone una continuità con la vita di prima, già, anche nella meno patologica delle situazioni, interrotta a causa della frattura del rapporto tra i genitori.

 

Ciò indipendentemente e a prescindere dalla titolarità di un dritto di proprietà o di altro diritto reale in capo ad un terzo, fatte salve le succitate precisazioni in ordine all’onere della prova avente ad oggetto la volontà delle parti al momento della formazione dell’accordo e ai suoi requisiti, nonché alle eccezioni contemplate all’articolo 1809 c.c.

 

E ciò, come anzidetto, fino al termine dell’assegnazione della casa familiare, vale a dire sino alla indipendenza economica della prole, termine indirettamente impresso, sempre che si si ritrovi nella cornice dell’istituto di cui all’articolo 1809 c.c., al sorgere del rapporto negoziale.

 

In definitiva ed in conclusione sul punto, ciò che rileva e va tenuto presente, sia da parte del comodante sia da parte del comodatario, è la possibile esistenza di un termine, sia pur per relationem e sia pur con le precisazioni svolte, che riveste, nello stesso tempo, anche un vincolo delle esigenze e dei bisogni non tanto del comodatario, quanto piuttosto dell’intera famiglia e della prole in primis, anche a seguito della disgregazione coniugale, fatto che, sia pur importante, rimane indifferente all’originaria finalità negoziale.