RIFLESSIONI
IN ORDINE AL C.D. IUS VARIANDI
La
lettera della norma
Anzitutto, è necessario
partire dalla lettera della norma, l’art. 2103 c.c., che è stato novellato nel
2015 dal D. Lvo n. 81 del 15 giugno 2015, articolo 3,
attuativo del c.d. Jobs Act.
Ora, la precedente versione
dell’art. 2103 c.c., vale a dire quella dell’impianto del codice civile del
1942, come modificata dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori (Legge
300/1970), era la seguente: “Mansioni del
lavoratore: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle
ultime effettivamente svolte, senza
alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha
diritto al trattamento corrispondente all'attività
svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque
non superiore a tre mesi. Egli non
può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive. Ogni patto contrario è
nullo.”
A seguito delle modifiche
intervenute con il summenzionato decreto attuativo del Jobs Act,
applicabile ai rapporti di lavoro subordinato in essere dalla sua entrata in vigore
e, dunque, a prescindere dalla data di assunzione del prestatore (a differenza,
dunque, di quanto avviene per il regime dei licenziamenti c.d. a tutele
crescenti), la lettera della norma ora vigente è la seguente: “Prestazione del lavoro:
Il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a
quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso
livello di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte. In caso di modifica degli
assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere
assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.
Il
mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento
dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la
nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Ulteriori
ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore
possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Nelle
ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla
conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in
godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari
modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Nelle
sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di
certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre
2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle
mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione,
nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione,
all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle
condizioni di vita.
Nel
caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al
trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene
definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia
avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il
periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.
Il
lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per
comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Salvo
che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto
al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”
Il c.d. ius variandi in pejus
Come si evince da una lettura
comparata delle due norme, la novella pare, quantomeno prima facie, avere incisivamente
modificato la disciplina delle mansioni, anche con riflessi su un’eventuale
possibilità di demansionamento (ius variandi in pejus).
Vale subito la pena precisare
che il nuovo testo non legittima in alcun modo un demansionamento
ingiustificato ovvero arbitrario del datore di lavoro.
Tuttavia, se nel testo
previgente la giurisprudenza (e prima ancora la legge) avevano enucleato, quale
limite alla possibilità e alla facoltà datoriale di variare le mansioni del
lavoratore all’interno ed in corso di rapporto di lavoro, il criterio di c.d.
equivalenza tra le mansioni di partenza e quelle, per così dire, di
destinazione (ciò che la giurisprudenza aveva definito come “sapere fare
acquisito” ed è eloquente al riguardo la nuova rubrica dell’articolo in esame),
ora tale limite è sfumato, non senza però lasciare spazio, come anzidetto, ad
un diritto senza confini dell’imprenditore, il quale, indubbiamente, è inserito
in un regime più flessibile nella gestione dei rapporti con i lavoratori.
In altre parole, in passato
era consentita una modificazione delle mansioni di assunzione del lavoratore
ispirata al criterio della equivalenza, concretizzatasi una variazione sostanzialmente
orizzontale e strettamente corrispondente a quelle di assunzione o, comunque
sia, a quelle precedentemente svolte; la nuova disciplina, certamente di più
ampio respiro sotto il profilo del ius varianti, non
sconta però, lo si ribadisce ad abundantiam, una
totale esenzione di confini e limitazioni.
Per dovere di completezza,
valga rilevare che la giurisprudenza e la dottrina avevano provveduto, nel
corso del tempo, a mitigare la rigidità del principio di equivalenza, consentendo,
come extrema ratio, eccezioni
allo stesso, anche in senso peggiorativo verticale, al fine di conservare il
posto di lavoro e, dunque, laddove l’alternativa fosse rappresentata da un
provvedimento espulsivo.
Giungendo ad esaminare
l’impianto attuale della norma in parola, valga precisare che, se in passato
era l’equivalenza la linea guida cui ispirare il proprio operato in caso di variatio, oggi il criterio cui ci si deve ispirare è
rappresentato dalla medesima categoria
legale (secondo comma attuale 2103 c.c.)
Una prima ipotesi dunque di
-legittima- variazione si profila qualora le mansioni ad quem siano appartenenti alla medesima
categoria legale di quelle originarie, salvo
la precisazione ulteriore di cui infra.
Al riguardo, è sempre bene
tenere presente, a parere della scrivente, che la maggiore ed indubbia
flessibilità consentita dal nuovo regime, dovrà comunque sia essere mitigata dal
canone della buona fede: non sarà dunque legittimo, pena tutte le conseguenze del
caso (in primis in termini di danno alla professionalità e danno c.d. non patrimoniale),
la variazione che sia uno stravolgimento delle mansioni originariamente svolte,
rispondente ad elementi di assoluta irrazionalità, non essendo in alcun modo
consentito adibire il lavoratore a mansioni del tutto eterogenee rispetto a quelle
offerte al momento dell’assunzione.
Quanto dunque alla
possibilità di demansionare il lavoratore, oltre al
limite della categoria legale di apparenza -che esclude il passaggio drastico
da impiegato ad operaio- il secondo comma del novellato articolo, pone un
ulteriore confine al trasferimento del prestatore a mansioni inferiori,
imponendo che vi sia una “modifica degli assetti organizzativi
aziendali che incida sulla posizione del lavoratore”: in altre parole, non solo è necessaria
una variazione da un punto di vista aziendale -e ciò sarebbe anche possibile,
considerata l’iniziativa economica privata e, dunque, la legittimità
dell’imprenditore di gestire la propria società come meglio crede- ma è
necessario che tale variazione incida sulla posizione del singolo prestatore,
seppur probabilmente non in senso esclusivo; peraltro, al riguardo, la novella
introdotta dal D. evo 81/2015 dispone che nell’ipotesi di “modifica degli
assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo
stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento
inferiore”, fissando dunque una ben definita limitazione anche in senso
verticale al potere datoriale.
Non solo, il comma terzo del
novellato articolo prevede altresì, in caso di rispetto dei requisiti sopra
descritti e dunque nell’ipotesi in cui il datore di lavoro voglia procedere al demansionamento, un obbligo formativo, il cui mancato
adempimento, però, “non determina
comunque la nullità dell’atto di trasferimento”.
Nonostante la presenza di
tale ultima clausola, si ritiene che il mancato esperimento dell’obbligo
formativo possa invero avere conseguenze rilevanti, in particolare sotto due
profili:
1) in sede di contestazione
disciplinare: il lavoratore potrebbe eccepire, nelle proprie controdeduzioni,
di essere incorso nell’errore oggetto di contestazione, in ragione della
mancata formazione e ciò potrebbe condurre ad un annullamento dell’eventuale
sanzione irrogata ovvero del licenziamento intimato;
2) il lavoratore, non
esperendo il datore l’obbligo formativo di cui al terzo comma, potrebbe
azionare una c.d. eccezione di inadempimento e dunque non svolgere le nuove
mansioni sintantoché non si ritenga adeguatamente
formato.
è
evidente dunque l’importanza dell’obbligo di formazione che, una volta
eseguito, potrà essere, si ritiene, cristallizzato in una informativa o in una
comunicazione da consegnare al lavoratore e fare sottoscrivere allo stesso.
Una seconda ipotesi di
assegnazione a mansioni inferiori è prevista dal comma IV dell’articolo in
esame, sempre purché rientrando nella medesima categoria legale delle mansioni
di partenza, con un richiamo ad un’eventuale previsione dei singoli CCNL di
riferimento.
Il V comma della norma in parola
dispone che in queste prime due fattispecie di demansionamento
(quelle cioè previste dall’imprenditore nei limiti anzidetti e laddove consentite
espressamente dalla contrattazione collettiva), il mutamento di mansioni sia
comunicato per iscritto e il lavoratore conserva il livello di inquadramento ed
il trattamento retributivo di assunzione ovvero quello migliorativo
successivamente guadagnato.
Terza ed ultima fattispecie
normativamente enucleata in tema di ius variandi
in pejus prevista dall’attuale assetto normativo,
è riconducibile al VI comma dell’articolo 2103 c.c.,
nella sua attuale formulazione, che contempla la possibilità che vi sia un accordo
in tale senso tra le parti contrattuali nelle c.d. sedi protette; del resto,
tali accordi individuali possono avere ad oggetto modificazioni peggiorative
sia delle mansioni sia della retribuzione sia del livello di inquadramento,
sempre che ciò avvenga nell’interesse del lavoratore alla conservazione del
posto ovvero alla acquisizione di una diverse professionalità o al
miglioramento delle condizioni di vita dello stesso (a titolo esemplificativo,
si potrebbe pensare ad un avvicinamento a casa del luogo di lavoro).
Il c.d. ius variandi in melius e le
conseguenze della violazione
Un cenno merita anche il
c.d. ius variandi in melius, parimenti disciplinato nella norma in esame.
Infatti, il settimo comma
dell’articolo 2103 c.c. nuovo testo dispone che “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto
al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene
definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia
avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il
periodo fissato di CCNL o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.
Le conseguenze di un illegittimo demansionamento
Per completezza espositiva,
si rileva che eventuali modificazioni delle mansioni in presenza di modalità e
requisiti difformi rispetto a quelli appena descritti, comportano la nullità di
ogni patto in tal senso (in conformità all’ultimo comma del novellato articolo
2103 c.c.); inutile dire che la nullità del demansionamento
espone l’Azienda a pretese risarcitorie sotto il profilo patrimoniale e non (a
titolo esemplificativo: danno alla professionalità).
Tali pretese risarcitorie
vanno lette in correlazione al fatto che, nella nostra società, il lavoro, di
per sé considerato, non costituisce unicamente un mezzo di guadagno ma anche, e
soprattutto, un mezzo di estrinsecazione della personalità dello stesso (tra le
tante: Tribunale di Milano, Sezione lavoro, sentenza n. 1649, del 31.05.2016).
Anzitutto, valga evidenziare
che l’obbligo gravante in capo al datore di lavoro, scaturente dall’articolo
2103 c.c., di adibire il lavoratore alle ‘proprie’ mansioni, ha chiaramente
natura contrattuale, con la conseguenza che, in tema di onus
probandi, si applicheranno le regole di cui all’art. 1218 c.c., con esenzione
dunque dall’onere di provare l’esistenza di uno specifico intento datoriale di
declassamento del lavoratore e permanendo l’onere dell’esatto adempimento in
capo, appunto, datoriale, salva ovviamente la necessità ex parte lavoratoris di dimostrare il relativo obbligo gravante
sulla controparte e l’inadempimento allo stesso.
Con riferimento al
risarcimento del danno, l’accertamento, in sede giudiziale, di un’illegittima
assegnazione a mansioni inferiori, rileva sotto svariati profili, tutti comunque
sia correlati ad uno stringente onere di allegazione in capo al ricorrente e del
tutto svincolati, nel loro riconoscimento, da qualsivoglia forma automatismo:
-danno da c.d. demansionamento: il giudice, oltre a sanzionare
l’inadempimento dell’obbligo contrattualmente assunto da parte datoriale,
mediante condanna risarcitoria, può ordinare a quest’ultimo di rimuovere gli
effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori,
affidando al lavoratore l’originario incarico ovvero un altro di contenuto
equivalente (Cass. Sezione lavoro, sentenza n. 16012, del 11.07.2014 richiamata
dalla pronuncia del Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 2146, del
15.07.2016); valga evidenziare, sul punto, che il lavoratore dovrà provare
l’esistenza di un pregiudizio incidente sul
“‘fare reddituale’ del soggetto, che
alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse dall’espressione e
realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno” (Cass. Sezione Lavoro sentenza n. 1327 del 26.01.2015 richiamata da
Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 2146, del 15.07.2016);
-danno biologico o
esistenziale: si richiama l’onere di specifica allegazione ut
supra accennato, precisando altresì che il
pregiudizio di cui trattasi deve essere oggettivamente accertabile (in sede, ad
esempio, di CTU), sia sotto il profilo della sussistenza e del quantum sia
sotto il profilo del nesso eziologico con il demansionamento;
-danno da c.d. perdita di
chance: vale quanto sopra precisato in punto di onere di allegazione; il
lavoratore dovrà allegare le concrete chance che gli sono state offerte e che
avrebbe perduto (Tribunale Sezione Lavoro, sentenza n. 2146, del 15.07.2016);
-mobbing: discorso a parte,
di più ampio respiro che, per ragioni di praticità esula il presente lavoro,
merita la richiesta di risarcimento del danno a titolo di c.d. mobbing;
in questa sede, è bene
comunque sia rilevare che il demansionamento
illegittimo si configura, nella prassi, quale primo campanello d’allarme per un
disegno vessatorio finalizzato all’estromissione del prestatore di lavoro dalla
realtà aziendale.
In conclusione, si ritiene
che la novella di cui all’articolo 2103 c.c. desti particolare interesse, in
ragione soprattutto del perno attorno cui ruota la variazione in parola, cristallizzata
già nell’eloquente rubrica dell’articolo in commento, la cui denominazione è
passata da “mansioni del lavoratore” a “prestazione del lavoratore”; è evidente
il riferimento, a parere di chi scrive, ad una maggiore attenzione del
legislatore all’aspetto effettivo e produttivo dell’elemento lavoro, specchio
di una società in cui la semplice obbligazione di mezzi si avvia verso il
tramonto, lasciando spazio ad un’ottica e ad una visione più concreta non solo
delle mansioni ma anche, appunto, dell’intera prestazione lavorativa.
Articolo pubblicato in http://www.salvisjuribus.it/riflessioni-in-ordine-al-c-d-ius-variandi/ (ISSN: 2464-9775)